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O romance Livro representa Portugal na coleção "La Biblioteca del Mondo", distribuída pelo jornal La Reppublica, com autores como Chimamanda Ngozi Adichie, Mo Yan, Nadine Gordimer, Guillermo Arriaga, Han Kang, entre outros.
Disponível nas bancas de toda a Itália.
I test missilistici della Corea del Nord non sono iniziati con l’elezione di Trump. Nell’aprile 2012, appena salito al potere, il giovane Kim Jong-un spedì in aria il suo primo razzo a lungo raggio, che esplose circa un minuto dopo il lancio. Il missile arrivò ad un’altitudine di 94 miglia, quando invece avrebbe dovuto raggiungere le 310 per riuscire a collocare un satellite in orbita. Gli Stati Uniti dubitarono di quelle intenzioni, insinuando che si trattasse di un test missilistico segreto e inasprendo così le sanzioni già in vigore. Si stima che, dal 2012, la Corea del Nord abbia condotto cinque test nucleari e una cinquantina di lanci di missili balistici. L’ultimo di questi, avvenuto il 29 aprile scorso, non è riuscito a superare il confine nazionale ed è ricaduto a terra. Anche il precedente tentativo, registrato il 16 aprile, è stato un fallimento: il razzo è caduto poco dopo il lancio.
La Corea del Nord è un paese in cui circolano ancora camion alimentati a legna. Nella parte posteriore hanno una specie di caldaia, e un soldato, seduto accanto ad un mucchietto di legna accatastata. Emanano un fumo denso e bianco, avanzano molto lentamente. I camion Sungri-58 iniziarono ad essere prodotti in Corea del Nord nel 1958, fino alla metà degli anni ’60. Ancora oggi se ne trovano molti, soprattutto sul ciglio delle strade, con due o tre uomini in piedi davanti ad un cofano aperto alle prese con una qualche avaria. La Corea del Nord è un paese in cui si riutilizza ogni chiodo arrugginito, in cui tutto può essere rattoppato mille volte.
La povertà è difficilmente riconoscibile per la maggior parte dei turisti in visita nel paese. Da una parte, la grande povertà non esiste nella capitale, o nei luoghi in cui si recano abitualmente gli stranieri. Nonostante la mancanza di energia e altre varie carenze, le élite privilegiate vivono proprio nella capitale. Non circolano camion alimentati a legna tra i viali di Pyongyang. D’altra parte, in base alle proprie esperienze, gli stranieri identificano la miseria con il disordine e il degrado dello spazio pubblico. Ma è difficile riscontrare tali situazioni in Corea del Nord: tutto ha sempre un ottimo aspetto, da fuori.
Ci sono comunque dei dati relativi alla povertà. Le varie organizzazioni non-governative attive nel campo riferiscono che un quarto dei bambini del paese soffre di malnutrizione, con conseguenze come l’atrofia, il rachitismo, l’anemia, ecc.
Ho avuto l’opportunità di vedere con i miei occhi varie immagini di questa grande povertà nell’Est del paese, in particolare nelle regioni di Hamhung e Pujon. Dal 2012 ad oggi, ho fatto quattro viaggi in Corea del Nord. Uno di questi è durato quasi tre settimane, e insieme a diverse letture ed altre fonti d’informazione è servito da base per la redazione del libro Dentro do Segredo, uma viagem na Coreia do Norte. In quelle occasioni ho avuto modo di vedere e fotografare molti Sungri-58. Non ho dimenticato i bambini incontrati nelle regioni rurali e nelle città più remote: poco vestiti contro il freddo, sporchi, estremamente magri, lo sguardo perso, la paura, la diffidenza.
Sempre dal vivo, ho potuto assistere a due enormi parate militari a Pyongyang – nell’aprile 2012, per i 100 anni di Kim Il-sung, e nell’ottobre 2015, per i 70 anni del Partito dei Lavoratori di Corea. Nei giorni di festa in città arrivano migliaia di persone. Lungo diversi chilometri, negli ampi viali si riversano folle che acclamano e sventolano fiori ai militari, i quali sfilano sorridenti nelle loro migliori uniformi e dall’alto di veicoli da combattimento. Le piccole jeep procedono per prime, seguite da vetture che mano a mano aumentano in dimensioni e potere distruttivo. Si arriva all’apogeo con il passaggio dei missili, esibiti per la prima volta proprio nella sfilata del 2012. Parallelamente, nel cielo gli aerei si esibiscono in formazioni acrobatiche, lanciando scie di fumo colorato.
Durante queste sfilate i nord-coreani sono i soli a non accorgersi di quanto quelle macchine siano obsolete. Il fumo dei tubi di scappamento lascia l’aria irrespirabile, il loro rumore non permette di conversare. Anche da terra si nota che gli aerei sono ormai datati, come i MiG, fabbricati in Unione Sovietica negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. E se lo so io, lo sanno anche i servizi segreti americani.
Sono stato ad entrambe le estremità del parallelo 38. Ho visto la Corea del Sud dal lato nord, ed ho visto la Corea del Nord dal lato sud. Il punto più teso della frontiera è separato dal centro di Seul da meno di 60 chilometri. Eppure, quando si parla con i sud-coreani di questo argomento, raramente si dimostrano apprensivi o timorosi. Il sentimento più diffuso è la pena. In Corea del Sud, la popolazione conosce la reale situazione della penisola molto meglio di quanto non possa fare un lettore di giornali occidentale. Conosce la povertà, l’arretratezza tecnologica e militare, e sa anche che le minacce del regime di Pyongyang esistono ininterrottamente da decenni. Non sono mai cessate, e non sono iniziate con l’elezione di Trump.
Di recente gli Stati Uniti hanno installato un sistema di difesa antimissili nel territorio della Corea del Sud. Le notizie flash occidentali hanno sottolineato l’opposizione della Cina, lasciando intendere che questa presa di posizione sia dovuta alla difesa degli interessi della Corea del Nord, sua supposta alleata. Eppure, chi si è preso la briga di cercare articoli un po’ più lunghi e approfonditi, si è presto reso conto che la Cina si oppone perché teme che le sue proprie informazioni diventino permeabili al potente radar del sistema antimissili americano.
D’altronde, è curiosa la quasi totale assenza nella stampa occidentale di notizie riguardanti le manifestazioni dei sud-coreani contro l’installazione del sistema antimissili americano. Temendo le radiazioni emesse dal radar, tali manifestazioni sono terminate in violenti scontri con la polizia. Come si spiega che la popolazione sia più preoccupata dalle radiazioni che da una minaccia nucleare a pochi chilometri di distanza? Si tratta di gente che non si informa soltanto attraverso Fox News.
Le relazioni diplomatiche con la Cina sono solo un esempio dei numerosi equivoci, più o meno velati, che imperversano nella stampa occidentale dedicata al tema. Lo scorso febbraio la Cina ha smesso di comprare dalla Corea del Nord il carbone, che costituiva la principale, se non l’unica, esportazione del paese. Nello stesso periodo, i voli di Air China per Pyongyang sono stati interrotti. Sono anni che la Cina, pubblicamente e ripetutamente, chiede alla Corea del Nord di sospendere i test missilistici, ma senza ottenere alcun risultato. Nel 2013, Kim Jong-un ha ordinato l’esecuzione di suo zio, un alto ufficiale del regime, accusandolo di eccessiva simpatia nei confronti dei modelli economici cinesi. Si potrebbero facilmente elencare altri segnali che testimoniano l’assenza di relazioni tra Pechino e Pyongyang, l’eloquenza non manca negli scaffali vuoti della Corea del Nord, ma nonostante tutto si continuano a diffondere ovunque notizie di una loro alleanza.
La semplificazione, l’eliminazione di alcuni temi e l’esaltazione di altri sono i principali peccati della stampa internazionale nei confronti di questo argomento. Un altro esempio: il 7 maggio in Corea del Nord è stato arrestato un cittadino americano. Attualmente, dietro le sbarre nord-coreane ci sono 4 prigionieri americani. Dall’inizio del XXI secolo, e includendo questi ultimi, la Corea del Nord ha arrestato 17 stranieri: 15 nordamericani, 1 canadese e 1 australiano. Questi arresti hanno sempre trovato un’ampia eco nei media: le confessioni pubbliche, le condanne esagerate e senza possibilità di ricorso – otto, dieci, quindici anni nei campi di lavoro. Ma chi sa cos’è successo dopo? Di tutti gli americani arrestati in Corea del Nord, solo 3 non sono stati rilasciati prima dello scadere del primo anno. Tra loro, molti hanno scritto libri e tentato di promuovere la propria storia. Nessuno ha avuto successo. La stampa non si è preoccupata di raccontare di stanze d’hotel con guardie alla porta e, dopo mesi o settimane, la liberazione grazie all’intervento della diplomazia nordamericana.
La Corea del Nord è un paese senza risorse naturali contese internazionalmente. Ci sono dati oggettivi che dimostrano l’insignificanza del suo potere militare. Le minacce fanno parte del suo discorso da sempre, con programmi interni ed esterni. Ma quindi, perché attaccare la Corea del Nord? I più ingenui motivano con l’estrema povertà alla quale il regime assoggetta il suo popolo. A volte però ci si dimentica che gli Stati Uniti intrattengono eccellenti relazioni con paesi come il Chad, uno dei più poveri al mondo nonostante gli oltre 100 mila barili quotidiani di petrolio che i texani della Exxon Mobil ritirano ogni giorno dal suo suolo. Ci si dimentica dell’India, per esempio, che conta circa 170 milioni di poveri – individui che sopravvivono con meno di 2 dollari al giorno. Perché attaccare la Corea del Nord? Altri, altrettanto ingenui, rispondono che si tratta di un paese in cui regna una dittatura terribile. Due parole per questi disattenti: Arabia Saudita. Senza trovare riscontro all’interno della sua stessa istituzione, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha lanciato un allarme riguardo le frequenti pratiche di tortura ed altre forme di trattamento degradante nel sistema giudiziario saudita. Si tratta di un paese nel quale le donne hanno conquistato il diritto di andare dal medico senza chiedere il permesso agli uomini solo una settimana fa. Ma continuano a non poter guidare, né occupare una qualunque carica istituzionale, per esempio. Ed è proprio l’Arabia Saudita il paese che il presidente degli Stati Uniti ha scelto per iniziare il suo primo viaggio ufficiale all’estero.
Salvare un popolo bombardandolo, ammazzando migliaia di innocenti per salvarne altrettanti, significa non riconoscere il valore dell’altro. Significa pensare come Kim Jong-un. Significa giudicare con una superficialità criminale, assassina.
Ma se la Corea del Nord è sempre la stessa, perché si è verificato il cosiddetto “aumento di tensione”? Cos’è cambiato?
È cambiato il presidente degli Stati Uniti. Donald Trump – riflettendoci, è facile dimenticarsi che il presidente degli Stati Uniti è Donald Trump, quello di twitter, del parrucchino, delle fake news. Sarà che Trump ha qualcosa da guadagnarci, in termini di notorietà interna ed esterna, in un conflitto e nella sua conseguente vittoria militare in Corea del Nord? Se messo di fianco ad un bad guy come Kim Jong-un, anche un Trump sembra un good guy.
Oggi la popolazione della Corea del Nord supera i 25 milioni di persone. L’anno scorso, Tony Blair ha presentato le sue pallide scuse in seguito alla conferma dell’assenza di armi di distruzioni di massa in Iraq – motivo scatenante di una guerra che uccise 113 mila civili. Vogliamo ripetere la storia?
Non sto difendendo il regime della Corea del Nord. Siamo arrivati ad un punto in cui mi sento obbligato a giustificarmi per il semplice fatto di non dire quello che dicono tutti. Il tema è diventato talmente o bianco o nero, talmente buoni versus cattivi, che anche a fronte di informazioni altamente superficiali chiunque si sente in diritto di strillare insulti a lettere maiuscole nella casella dei commenti, colmi di certezze che pendono da un lato o dall’altro. Oltretutto, la penisola coreana è abbastanza distante da rendere il dibattito puramente astratto, con discorsi che servono icone a fantasmi.
Nel mezzo, tra le parole, tra i missili, ci sono 25 milioni di persone. Non sono una massa omogenea e informe, sono persone, sono un numero immenso di persone. Contrariamente da quanto si continua a scrivere e ripetere, la Corea del Nord non è Kim Jong-un. La Corea del Nord sono quelle persone. A loro, chi pensa?
José Luís Peixoto
Tradotto da Alessandra Cerioli
Traduzione di Sandra Biondo
2013
L'Arcipelago Einaudi
pp. 304
ISBN 9788806212889
C'è un bambino accanto alla fontana di un piccolo villaggio portoghese. Ha solo sei anni e stringe un libro tra le braccia. Lo stringe forte come se da quel contatto dipendesse la sua sopravvivenza, come se quel volume definisse il volume di tutto il suo mondo. Perché in effetti il piccolo Ilídio non ha piú nulla: la madre l'ha abbandonato lí prima di emigrare in Francia, come molti portoghesi negli anni Cinquanta. Ilídio, nonostante tutto, crescerà e diventerà uomo, e conoscerà la fatica e conoscerà l'amore.
Ma quando anche Adelaide, l'adorata, la sognata Adelaide, sarà costretta a emigrare a Parigi, Ilídio non rimarrà inerme accanto alla fontana, da solo. Questa volta combatterà: anche se vuole dire affrontare un viaggio che ha il sapore epico dell'odissea verso la metropoli, seducente e crudele, del maggio del '68.
L'autore ha detto di Libro:
"Scrivere un romanzo vuol dire portare dentro di sé un segreto enorme. Provare a disfarsene parlandone non serve a niente. Il mondo diventa conoscibile solo dopo la scrittura. L'unico modo per liberarci del peso del segreto è scriverlo. Fino ad allora, è impossibile da condividere. Tutto ciò che non è il romanzo è incapace di comunicarlo. Mentre lavoravo a "Libro" dubitavo di me stesso, temevo che i personaggi non uscissero fuori, o la mia pelle assumesse la ruvidezza delle pietre del villaggio che riempiva i miei pensieri. Spesso, a metà di una conversazione, iniziavo a parlare con la voce di Galopim, di Cosme d'Ilidio mentre attende il ritorno della madre. A quell'epoca mi portavo addosso anni che non avevo mai vissuto ma che, durante la stesura del romanzo, respiravo in maniera assoluta, totale. Sono nato l'anno della Rivoluzione dei garofani, nel settembre 1974, ma le domeniche, durante gli interminabili pranzi di famiglia, i miei genitori e le mie sorelle ripetevano le storie di prima che io nascessi quando, durante la dittatura, erano emigrati in Francia. Esattamente come centinaia di migliaia di altri portoghesi. Un milione e mezzo di persone sono emigrate in Francia tra il 1960 e il 1974: circa il 15% di tutta la popolazione del paese. Questa era la dimensione del segreto che mi portavo addosso mentre scrivevo "Libro". I miei genitori sono tornati in patria pochi anni prima della mia nascita, stabilendosi nel piccolo borgo nell'entroterra di Alentejo..."
Ada Milani, in L' Indice
Lisbona, quartiere Benfica. Una bottega di falegname e, al suo interno, una stanza, prima sbarrata dal tempo e da cianfrusaglie ammucchiate in modo disordinato, poi spalancata, improvvisamente, come una porta sulla notte. La luce che si insinua lentamente, facendosi strada fra polvere e ragnatele, illumina un mondo fatto di oggetti antichi e di ricordi sopiti: “Al centro c’era un muro di pianoforti sovrapposti. La luce attraversava gli spazi vuoti fra uno e l’altro e anche dalla porta si poteva scorgere il labirinto di corridoi nascosti. E su un piano a coda c’era un altro piano a coda, più piccolo e senza gambe; e sopra questo uno verticale, sdraiato; e sopra quello un mucchio di tasti”. È questa l’immagine del cimitero dei pianoforti, da cui prende il nome l’ultimo romanzo di José Luis Peixoto pubblicato in Italia, tradotto da Guia Boni. Il cimitero dei pianoforti è un luogo mitico, che, “come un dito che, sulla tastiera, risveglia un meccanismo sopito”, fa riemergere storie, profumi e sensazioni di un tempo passato, ma incancellabile.
Al centro del romanzo troviamo la figura di Francisco Lázaro, atleta portoghese di umili origini, simbolo di un Portogallo rurale, assurto a vero e proprio eroe della gente comune, che morì, a causa di un’insolazione, dopo aver percorso 30 chilometri alla maratona delle Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Nel romanzo, tuttavia, si alternano ben tre voci narranti: quella di Francisco Lázaro maratoneta, quella “postuma” di suo padre, già morto al tempo della narrazione, e quella di suo figlio, venuto alla luce il giorno stesso della morte di Francisco. Tre narratori, tre storie che si alternano e si sovrappongono, ma anche tre voci che si mescolano, non sempre esattamente identificabili.
Anche nel Cimitero dei pianoforti, come in ogni romanzo di José Luis Peixoto (classe 1974), la morte è una presenza costante (si pensi, ad esempio, a Nessuno sguardo, che gli è valso il Premio José Saramago nel 2001, e a Una casa nel buio, editi presso La Nuova Frontiera, rispettivamente nel 2002 e nel 2004). In quest’ultimo romanzo, però, la morte si lega indissolubilmente alla nascita: i pianoforti rotti, senza musica, sono l’immagine del tempo fermo, immobile, ma il cimitero dei pianoforti è anche un luogo di rinnovamento. Attraverso i pezzi dei pianoforti ormai morti, infatti, si dà vita ad altri pianoforti, così come il figlio di Francisco Lázaro dà nuova vita ai sogni del padre, che “nei suoi sogni ascoltava i pianoforti come si ascoltano gli amori impossibili”. Il romanzo è un’inevitabile susseguirsi di morti e di nascite e, non a caso, si apre con la scritta “Resurrecturis”, una resurrezione suggerita dallo stesso nome dei protagonisti, Lázaro, quel nome tramandato così orgogliosamente di padre in figlio. “Guardavo i pianoforti morti, mi ricordavo che c’erano pezzi che risuscitavano dentro ad altri pianoforti e credevo che anche la vita potesse essere ricostruita allo stesso modo. Non ero ancora malato, i miei figli crescevano trasformandosi in ragazzi, così come anch’io qualche tempo prima ero stato ragazzo. Il tempo passava. E avevo la certezza che una parte di me, come i pezzi dei pianoforti morti, avrebbe continuato a funzionare dentro di loro”.
A partire dal titolo, il romanzo di José Luis Peixoto è costellato di riferimenti musicali e la stessa scrittura sembra concepita secondo un preciso sviluppo ritmico. Il cimitero dei pianoforti sembra articolato secondo criteri che potrebbero regolare una forma musicale: lo stile è a tratti melodioso, di un lirismo quasi romantico, a tratti più movimentato e irregolare o, ancora, rapsodico, frammentario. Nelle pagine conclusive del romanzo, che descrivono la corsa disperata di Francisco Lázaro verso la sua fine, la narrazione diventa infuocata e suggerisce la fatica, la disperazione, l’impossibilità di andare oltre i propri limiti. Francisco Lázaro, come Meursault nel celebre romanzo di Camus (Lo straniero, edizione originale del 1942, edito in Italia da Bompiani nel 1947) è accecato e stordito dal sole, che lo trafigge sotto forma di autentici aghi di luce: “il calore – il fuoco – il calore – le fiamme – il calore – le braci – il calore – non c’è via d’uscita – corro, fuggo – non c’è via d’uscita dal calore, dal fuoco”.
Il cimitero dei pianoforti è un romanzo intenso e struggente, che va letto lasciandosi trasportare dalle sensazioni, come fossero note, senza voler decifrare a tutti i costi il labirinto di voci. “Il tempo, come un muro, una torre, una costruzione qualunque, fa sì che non ci sia più distinzione tra verità e menzogna. Il tempo mescola la verità con la menzogna. Quello che è accaduto si mescola con quello che vorrei fosse accaduto e con quello che mi hanno detto sia accaduto. La mia memoria non è mia. La mia memoria sono io distorto dal tempo e mescolato a me stesso: alla mia paura, alla mia colpa, al mio pentimento”.
Artigo sobre a obra literária de José Luís Peixoto e a sua relação com a terra, da autoria de Silvia Cavalieri, publicado na revista académica Confluenze da Universidade de Bolonha, clicar aqui:
Terra che copre, terra che nutre - Morte e (ri)nascita nella scrittura di José Luís Peixoto
Le voci di padre e figlio si rincorrono in questo romanzo pieni di ricordi che coinvolge il lettore nella storia di questa famiglia portoghese sino a trasformarlo in un testimone, in un amico, quasi in una persona di famiglia.
La voce del padre ripercorre il passato, un passato fatto di illusioni e di fallimenti, un passato fatto di una moglie stupenda e di ben quattro figli ma solcato anche dalla violenza causata dall’alcol. Dopo una lunga malattia è morto senza lasciare dietro di sè alcun segno di successo e adesso può soltanto viaggiare nella memoria e osservare il presente e suo figlio da lontano senza poter, purtroppo, intervenire in alcun modo sul corso degli eventi.
Anche la voce del figlio Francisco ripercorre il suo passato mentre passo dopo passo partecipa alla maratona dei Giochi Olimpici di Stoccolma del 1912. "Il suono del vento mi attraversava le orecchie come il ruggito dell’universo. Forse è come il rumore che si fa quando si passa dentro al tempo, quando lo si attraversa con tutto il corpo: le braccia e le gambe che attraversano il tempo, il petto che attraversa il tempo e il viso che si porta dentro tutta l’eternità."
Francisco mentre corre pensa anche al futuro e a sua moglie che sta per mettere al mondo il suo bambino. Quel futuro lui non lo vedrà mai perchè proprio durante quella corsa troverà la morte a causa di un’insolazione.
Al centro dei loro ricordi vi è la bottega del falegname dove il padre ha fatto il proprio apprendistato e dove ha iniziato a lavorare, la stessa bottega tramandata di padre in figlio che possiede anche una stanza tenuta sempre chiusa a chiave dove si trovano vecchi pianoforti quasi fosse un vero e proprio cimitero dipianoforti.
Questo romanzo parla di vita e di morte, di amore e di solitudine. È un romanzo amaro ma anche commovente che avvolge il lettore con la paura che la vita possa colpire con le sue disgrazie ma anche con la speranza che qualcosa di bello possa sempre accadere.
Camilla Biagini, in Solo Libri
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Se c’è ancora qualcuno che pensa che la letteratura portoghese contemporanea significhi solo il pur grandissimo e indimenticabile Saramago, consigliamo questo insolito, bellissimo testo di un giovane – è del 1974 – alentejano autore di romanzi, poesie e testi per il teatro. Il romanzo è una cronaca famigliare in cui si alternano le voci dei vari protagonisti: il padre, ormai defunto, e il figlio, maratoneta alle Olimpiadi del 1912 (e saranno proprio i chilometri di quella gara a scandire il susseguirsi dei capitoli). Luogo di unione delle varie storie che via via vengono raccontate, la loro falegnameria, all’interno della quale si cela il “cimitero dei pianoforti” – sfasciati, abbandonati, azzoppati, scordati –, luogo di ricordi, nascondiglio, metafora delle vite loro e delle persone a loro vicine. Una scrittura ricercata, intensa, evocativa, a volte geniale. E soprattutto musicale, come per una partitura. “Una rivelazione”, come ebbe a dire proprio Saramago.
Paolo Collo, in Il Fatto Quotidiano
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Una musica costante: Il cimitero dei pianoforti"Là dove si arresta il potere delle parole, comincia la musica." (Richard Wagner)
I protagonisti del libro sono Francisco e il padre. Fin qui tutto nella norma, se non fosse che i due sono già morti, il primo dopo una lunga malattia e il secondo durante una maratona a causa di un'insolazione (una curiosità: il personaggio di Francisco è liberamente ispirato alla figura di Francisco Lázaro, maratoneta portoghese morto dopo aver corso trenta chilometri alle Olimpiadi di Stoccolma nel 1912).
Padre e figlio ricordano aneddoti del passato, momenti legati alla vita in famiglia. Sono fantasmi, ombre presenti nella stessa stanza dei vivi, ne seguono le azioni quotidiane pur essendone definitivamente esclusi.
Il terzo movimento della Sonata al chiaro di luna diBeethoven mentre Francisco corre nella maratona: "Il suono del vento mi attraversava le orecchie come il ruggito dell'universo. Forse è come il rumore che si fa quando si passa dentro al tempo, quando lo si attraversa con tutto il corpo: le braccia e le gambe che attraversano il tempo, il petto che attraversa il tempo e il viso che si porta dentro tutta l'eternità." Serenade di Schubert per la scena finale del romanzo, quando tutta la famiglia è riunita in cucina a casa di Maria per ascoltare la radiocronaca della maratona: "Alle nove di sera, squillò il telefono. Nessuno sapeva che fare. Il trillo del telefono li lacerava, era filo spinato che scivolava sulla pelle. Mia moglie aveva le mani sulla testa perché non ce la faceva più. Marta e Maria tornarono a essere due sorelle bambine. Simão sapeva che toccava a lui rispondere al telefono. Mentre camminava, si accorgeva di avere gambe e braccia e mani. Di respirare." I veri protagonisti del libro non sono più Francisco e il padre ma la musica e i vecchi e malandati pianoforti, stipati all'interno della bottega, che progressivamente finiscono per simboleggiare una metafora dell'esistenza, quella "zona d'ombra e di conforto in cui si recuperano gli stimoli necessari per andare avanti".
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Elena Spadiliero, in Wuz Cultura & Spettacolo
Il Cimitero dei Pianoforti
di José Luís Peixoto
trad. di Guia Boni
Einaudi
Francisco Lazaro è il padre di una famiglia di un quartiere popolare di Lisbona (è morto, ma è ancora presente e sembra sapere tutto sulla sua famiglia); il vortice dei suoi ricordi (l'infanzia, l'apprendistato e la conduzione del laboratorio dove si riparano i pianoforti, la poesia del corteggiamento e il matrimonio con la madre dei suoi quattro figli, ma anche la violenza brutale, causata dai troppi bicchieri e dal male di vivere) è intercalato dai ricordi di suo figlio Francisco che mentre partecipa alla maratona dei Giochi Olimpici di Stoccolma del 1912, ripensa, chilometro dopo chilometro, la storia della propria vita. Fino a morire, di fatica e come oppresso dal peso del passato, mentre sua moglie mette al mondo un bambino.
Critica de Una Casa nel Buio/Uma Casa na Escuridão, in Il Riformista
De Fillipo La Porta
Dall'estremo della penisola iberica ci giunge un romanzo allegorico, scritto in una lingua evocativa e fortemente lirica, che tenta di decifrare un destino solitario, estremo, ma che forse ci appartiene. Uno degli effetti positivi della globa1izzazione è che nel modello (oggi dominante) della rete ogni luogo è sia centro che periferia. E così la periferia lusitana, apparentemente arretrata e un po' in disparte, può ridiventare per un attimo centralissima e cuore palpitante della contemporaneità.
«Mi dondolavo pianissimo. come se mi fossi addormentato dondolandomi e le gambe continuassero meccaniche a puntarsi a terra e a sollevarmi lentamente...». Fin dalla prima pagina di Una casa nel buio (La Nuova Frontiera, traduzione di Vincenzo Russo, introduzione di Luis Sepulveda, 267 pagine, 16,50 euro) di José Luis Peixoto, scrittore portoghese trentenne al suo secondo romanzo (dopo il notevole Nessuno sguardo, narrazione onirico ‑ realistica del Sud del mondo), scopriamo che lo stato creativo per eccellenza è il dormiveglia, la semicoscienza, appunto il dondolarsi sulla veranda verso la fine dell'estate, come se si fosse addormentati. Da questo stato emergono ricordi, sentimenti, immagini, interrogativi sull'esistenza. Peixoto diffida di un troppo "pieno" di coscienza: se infatti si è troppo vigili succede che il nostro io ingombrante riempie tutto lo spazio a disposizione. Non riesce ad affiorare nient'altro di diverso da me. Mentre la letteratura dovrebbe allentare i vincoli dell'io, e così assomigliare idealmente alla danza e all'estasi. Il romanzo estatico di Peixoto sembra originarsi da una insonnia stordita, felice e al tempo stesso angosciata. Il suo universo sfugge ad una logica normale, asimmetrica e si imparenta invece con la logica spaesante e simmetrica dell'inconscio, quella per cui se A è maggiore di B anche B può essere maggiore di A: una donna, qui la sua traduttrice può infatti essere contemporaneamente la più bella e la più brutta, e la vita stessa può coincidere con la morte.
La trama è appena suggestione e pretesto: in una casa isolata e buia alcuni personaggi, tra cui l'io narrante, sua madre, la schiava Miriam (il suo tocco era fragile, «come una ragnatela, come un velo, come una brezza»), il Violinista, sembrano ricercare un senso all'amore mentre tutt'intorno dei barbari hanno invaso il paese. L'autore vuole pronunciare la parola «amore» fino a consumarla, fino a penetrare dentro il suo centro vuoto, come è vuoto il suo cuore («il luogo del mio cuore senza il mio cuore») e come è vuoto il centro della terra. Tutto il romanzo, che parla impudicamente di felicità e di sentimenti primari è una ricerca del vuoto insondabile ma anche prezioso, potenzialmente creativo, racchiuso dentro ogni pieno. Nella pagina di Peixoto, luttuosamente barocca, sentiamo respirare e agitarsi il corpo umano, un corpo che marcisce, che si disfa, che imputridisce, che si riempie di buchi e di macchie per la peste incipiente, mentre nello spazio circostante si muovono esseri umani che sembrano ombre. E anche l'iterazione musicale della prosa ha un timbro barocco, come quando tre intere pagine sono riempite dalla frase «voglio morire». Si conclude con un grande incendio, in cui brucia tutto, i mobili, il pavimento, i ritratti nel corridoio, in cui la sensazione di essere felice coincide con il presentimento della fine e il cielo si prepara a far cadere la notte su di noi. La verità ultima che il romanzo ci consegna sembra bruciare ogni cosa, quasi in un atto sacrificale.
Benché questo giovane talento portoghese sia stato avvicinato al connazionale José Saramago (ma è più visionario e meno affabulatore), il suo è un romanzo - poema che termina con 12 poesie ispirate al libro stesso. In ciò non distante dalla tradizione letteraria italiana, poco romanzesca e impregnata di lirismo, autobiografismo, prosa d'arte. A volte la musicalità poetica è insistita e potrebbe far nascere qualche sospetto di iperletterarietà. Però rispetto ai nostri scrittori attuali Peixoto ci sembra assai più viscerale, come se ogni frase del suo libro fosse una sfida radicale, struggente al nulla che incombe sulle nostre esistenze.
Critica de Una Casa nel Buio/Uma Casa na Escuridão, in Liberazione.
De Marco Peretti
Eros e Thanatos, amore e morte, un campo di battaglia che ha per posta in gioco la vita, la conservazione della specie umana. Sperare di placare questo conflitto con la musica, la letteratura, le arti può essere un'illusione. «E' già notte e i barbari non vengono. / E' arrivato qualcuno dai confini a dire che di barbari non ce ne sono più. / Come faremo adesso senza i barbari? / Dopotutto quella gente era una soluzione».
L'attesa dei barbari può essere un buon alibi al disagio della civiltà, che è poi il disagio di convivere con noi stessi, ma dietro i versi del grande poeta greco Kavafis si nasconde, ironico, l'avvertimento: il problema è dentro di noi. Lo stesso grido di speranza e di ricerca d'amore che in toni surreali sembra lanciare José Luís Peixoto nel suo romanzo Una casa nel buio (trad. di Vincenzo Russo, La Nuova Frontiera 2004, euro 16,50) ma forse è già tardi e i barbari possono ancora essere utili.
Appena trentenne, José Luis Peixoto è già riconosciuto come una certezza della nuova letteratura portoghese. La sua vena malinconica è una lenta rappresentazione dell'elaborazione del lutto per un mondo sempre più in rovina cui il poeta, però, guarda ancora con gli occhi stupiti del bambino. L'immaginato si sovrappone al vissuto, il surreale e l'onirico ‑senza scansione del tempo ‑ diventano necessità del presente. La maturità della sua scrittura ‑ scarna ma essenziale ‑ cela il piacere per la poesia, per il verso che ritorna. La ripetizione è ostentata, quasi a negare la ricerca dei sinonimi, a negare la prosa. Romanzi, i suoi, che vanno letti a voce alta per goderne del ritmo.
Primo capitolo. L'amore. Un colpo d'ascia e il padre del narratore, ormai in fin di vita, uccide la schiava. Il figlio, allora bambino, aveva sentito tante volte la madre alzare la voce per coprire i suoni da uomo e da donna che uscivano dalla stanza chiusa e quel giorno pensò che quello era il senso più profondo dell'amore, per quello la madre avrebbe voluto esser al posto della schiava. Ora le notti son passate e come il padre che scriveva sonetti il narratore è uno scrittore. A chi gli domanda cosa scrive risponde che scrive se stesso. Lui sa che quando chiude gli occhi la vede, sa che è bellissima, la scrive e l'ama. Quel volto immaginato è identico a quello incorniciato su una tomba e quindi un giorno scoprirà che ha un cadavere dentro di sé.
Ultimo capitolo. La morte. La casa brucia. Brucia la scrivania su cui il padre scriveva sonetti, brucia il divano su cui la madre si era sdraiata tante notti, ma lei, tra le fiamme, o lei fiamma, torna per dirgli «ti amo». Il narratore nella casa che brucia per un momento è felice e muore.
«La felicità come l'amore sono momenti… momenti che la fine rende ridicoli... ma ridicoli solo prima e dopo... Non si deve aver vergogna di esser felici per qualche momento. Non si deve aver vergogna del ricordo di esser stati felici per qualche momento».
Tra l'amore e la morte nella casa nel buio, lenti passano i giorni ‑ indifferenti per il poeta che non crede più al futuro ‑ e scorre l'allegoria di Peixoto su una civiltà che non si volta più quando sente enunciare la parola amore. È una civiltà che ha bisogno dei barbari. I barbari sono una soluzione e puntualmente arrivano, mutilano, violentano, brutalizzano. Sono barbari.
Al Signor Violinista - nella casa avevano inventato le sette note - tagliano le mani e non potrà più suonare. Alla madre dello scrittore conficcano un ago nei timpani e non potrà più sublimare il dolore con la musica. Allo scrittore recidono braccia e gambe, così da diventare un giocattolo per il divertimento dei bambini dei soldati di ferro, e al principe di Calicatri, suo amico, è rimasto solo un buco rosso vivo al posto del cuore. E poi la schiava Miriam, Nessuno, il visconte di Dedodida: esseri poco umani - dai passati amori inibiti - costretti, per far fronte al buio, a tradursi in una comunità solidale. Sette personaggi, sette capitoli, «sette volte il giorno io ti lodo», recita uno dei Salmi dell'Apocalisse. Sette è il numero perfetto - dei peccati delle virtù - e sette volte il giorno i fedeli più devoti volgono la loro preghiera al Dio dei Salmi - Salmi in epigrafe, piccole lodi sul margine alto d'ogni capitolo - , un Dio che a volte sembra vendicarsi, abbandonare l'uomo, non averne più pietà.
Critica de Una Casa nel Buio/Uma Casa na Escuridão, in Class.
De Mimmo Stolfi
Una casa gotica, brulicante di gatti, schiave silenziose, madri rese folli da infelici ménage coniugali. Una casa di tenebra, percorsa da un via vai di personaggi assurdi (principi, visconti, violinisti, signor Nessuno) piagati da destini terribili, resi ancor più devastanti dall'irruzione di un manipolo di invasori demoniaci dediti a stupri, mutilazioni. sadismi e crudeltà gratuite. E poi, c'è 1ui, la voce narrante, un giovane scrittore visionario, innamorato di una donna immaginaria che lo abita dentro e che lui può vedere, e in qualche modo amare, solo chiudendo gli occhi. Un amore immateriale, certo, la proiezione mentale dell'eterno femminino, ma pur sempre un amore capace di illuminare la notte, di squarciare, seppure per pochi istanti, la tenebra del Male.
Una casa nel buio (La Nuova frontiera, 267 pagg., 16,50 euro) del trentenne scrittore portoghese José Luis Peixoto è un'onirica discesa agli inferi, cadenzata da una scrittura scarna, squarciata da lampi lirici e ricca di reiterazioni lessicali (Peixoto è anche un poeta e si sente). Ma Una casa nel buio è soprat tutto un apologo sul Male e sul silenzio di Dio (non è casuale che le epigrafi di ogni capitolo del libro siano dei salmi biblici). L'onnipotenza di Dio è morta ad Auschwitz e nelle altre mattanze del '900. Che Dio sia fragile proprio perché è Amore, è l'unica metafora che lo salva dall'assedio del male e della colpa: ma allora noi siamo responsabili nei suoi riguardi (come Egli lo è nei nostri). Che cosa significa essere responsabili di Dio lo si comprende se si rammenta l'immagine e somiglianza che legano l'uomo a Dio: essere responsabili di Dio significa essere responsabili della sua immagine, salvarla in noi e in tutto ciò che ha vita come una lucerna che i flati terribili del male (il buio di Peixoto, insomma) tentano di spegnere. Salvarla, come fa il protagonista di questo libro, anche senza saperlo.
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