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Ada Milani, in L' Indice
Lisbona, quartiere Benfica. Una bottega di falegname e, al suo interno, una stanza, prima sbarrata dal tempo e da cianfrusaglie ammucchiate in modo disordinato, poi spalancata, improvvisamente, come una porta sulla notte. La luce che si insinua lentamente, facendosi strada fra polvere e ragnatele, illumina un mondo fatto di oggetti antichi e di ricordi sopiti: “Al centro c’era un muro di pianoforti sovrapposti. La luce attraversava gli spazi vuoti fra uno e l’altro e anche dalla porta si poteva scorgere il labirinto di corridoi nascosti. E su un piano a coda c’era un altro piano a coda, più piccolo e senza gambe; e sopra questo uno verticale, sdraiato; e sopra quello un mucchio di tasti”. È questa l’immagine del cimitero dei pianoforti, da cui prende il nome l’ultimo romanzo di José Luis Peixoto pubblicato in Italia, tradotto da Guia Boni. Il cimitero dei pianoforti è un luogo mitico, che, “come un dito che, sulla tastiera, risveglia un meccanismo sopito”, fa riemergere storie, profumi e sensazioni di un tempo passato, ma incancellabile.
Al centro del romanzo troviamo la figura di Francisco Lázaro, atleta portoghese di umili origini, simbolo di un Portogallo rurale, assurto a vero e proprio eroe della gente comune, che morì, a causa di un’insolazione, dopo aver percorso 30 chilometri alla maratona delle Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Nel romanzo, tuttavia, si alternano ben tre voci narranti: quella di Francisco Lázaro maratoneta, quella “postuma” di suo padre, già morto al tempo della narrazione, e quella di suo figlio, venuto alla luce il giorno stesso della morte di Francisco. Tre narratori, tre storie che si alternano e si sovrappongono, ma anche tre voci che si mescolano, non sempre esattamente identificabili.
Anche nel Cimitero dei pianoforti, come in ogni romanzo di José Luis Peixoto (classe 1974), la morte è una presenza costante (si pensi, ad esempio, a Nessuno sguardo, che gli è valso il Premio José Saramago nel 2001, e a Una casa nel buio, editi presso La Nuova Frontiera, rispettivamente nel 2002 e nel 2004). In quest’ultimo romanzo, però, la morte si lega indissolubilmente alla nascita: i pianoforti rotti, senza musica, sono l’immagine del tempo fermo, immobile, ma il cimitero dei pianoforti è anche un luogo di rinnovamento. Attraverso i pezzi dei pianoforti ormai morti, infatti, si dà vita ad altri pianoforti, così come il figlio di Francisco Lázaro dà nuova vita ai sogni del padre, che “nei suoi sogni ascoltava i pianoforti come si ascoltano gli amori impossibili”. Il romanzo è un’inevitabile susseguirsi di morti e di nascite e, non a caso, si apre con la scritta “Resurrecturis”, una resurrezione suggerita dallo stesso nome dei protagonisti, Lázaro, quel nome tramandato così orgogliosamente di padre in figlio. “Guardavo i pianoforti morti, mi ricordavo che c’erano pezzi che risuscitavano dentro ad altri pianoforti e credevo che anche la vita potesse essere ricostruita allo stesso modo. Non ero ancora malato, i miei figli crescevano trasformandosi in ragazzi, così come anch’io qualche tempo prima ero stato ragazzo. Il tempo passava. E avevo la certezza che una parte di me, come i pezzi dei pianoforti morti, avrebbe continuato a funzionare dentro di loro”.
A partire dal titolo, il romanzo di José Luis Peixoto è costellato di riferimenti musicali e la stessa scrittura sembra concepita secondo un preciso sviluppo ritmico. Il cimitero dei pianoforti sembra articolato secondo criteri che potrebbero regolare una forma musicale: lo stile è a tratti melodioso, di un lirismo quasi romantico, a tratti più movimentato e irregolare o, ancora, rapsodico, frammentario. Nelle pagine conclusive del romanzo, che descrivono la corsa disperata di Francisco Lázaro verso la sua fine, la narrazione diventa infuocata e suggerisce la fatica, la disperazione, l’impossibilità di andare oltre i propri limiti. Francisco Lázaro, come Meursault nel celebre romanzo di Camus (Lo straniero, edizione originale del 1942, edito in Italia da Bompiani nel 1947) è accecato e stordito dal sole, che lo trafigge sotto forma di autentici aghi di luce: “il calore – il fuoco – il calore – le fiamme – il calore – le braci – il calore – non c’è via d’uscita – corro, fuggo – non c’è via d’uscita dal calore, dal fuoco”.
Il cimitero dei pianoforti è un romanzo intenso e struggente, che va letto lasciandosi trasportare dalle sensazioni, come fossero note, senza voler decifrare a tutti i costi il labirinto di voci. “Il tempo, come un muro, una torre, una costruzione qualunque, fa sì che non ci sia più distinzione tra verità e menzogna. Il tempo mescola la verità con la menzogna. Quello che è accaduto si mescola con quello che vorrei fosse accaduto e con quello che mi hanno detto sia accaduto. La mia memoria non è mia. La mia memoria sono io distorto dal tempo e mescolato a me stesso: alla mia paura, alla mia colpa, al mio pentimento”.
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